Ultima modifica: 24 Marzo 2022
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Che tempo che fa sulla guerra

Si pubblica, per condividerlo, l’intervento di Michele Serra nel programma televisivo Che tempo che fa di Rai 3 nella puntata di domenica 20 marzo.
 
Il nostro corpo è fragile, poca cosa, basta la scheggia di una bomba per metterlo a tacere per sempre. Ma il nostro corpo è anche potentissimo, indomabile, scaltro: viaggia, parla, pensa, racconta. Ha muscoli e voce, ha gambe e sguardo. La realtà virtuale, il metaverso, gli avatar, quando parla un reporter di guerra, finalmente sembrano solo quello che sono: stronzate, scusate la franchezza. Un giochino.
Un videogame. Chi si accontenta, si ritiri pure in quel limbo infantile. Buon divertimento. Ma sappiate che quel limbo non è il mondo. Il mondo è fatto di persone, è fatto di case, di alberi, di animali. Di cani che fiutano l’aria. Di gatti che guardano da una casa sventrata. E’ fatto di bombe, di ambulanze, degli abbracci tra chi sopravvive.
Non puoi accenderlo con un clic e nemmeno spegnerlo, con un clic. Il mondo se ne frega, dei nostri comodi.
Decide lui, come vanno le cose. E noi ci siamo dentro fino al collo.
Una sola parola detta con i piedi in mezzo alle macerie, respirando quella polvere, parlando con quegli uomini e quelle donne, una sola immagine scattata proprio lì, dove tutto è in bilico, tutto è ribaltato dalla storia, vale più di un milione di parole che intasano i social, il luogo dove tutti sanno tutto del mondo anche non ci sono mai stati.
Quasi tutto quello che conosciamo di questa guerra, al netto della propaganda, e al riparo dalla pioggia acida delle fake-news, ci arriva dal racconto diretto delle persone che sono lì. I giornalisti, i fotografi, i cameramen, quelli bravi e quelli meno bravi. Quelli che guadagnano buoni stipendi, e sono pochi, e i precari, che magari si sono anche pagati il biglietto del viaggio. Non ci mettono solo la faccia, come si usa dire. Ci mettono il corpo tutto intero, dalle scarpe all’elmetto protettivo.
Sono vestiti come operai, abiti pratici, robusti, perché sono operai: prestatori d’opera, gente che fa il proprio mestiere. Ecco una parola che andrebbe rivalutata, mestiere.
E’ una parola umile, viene dal latino ministerium, che significa servizio.
Chi impara un mestiere, e cerca di farlo bene, rende un servizio alla comunità. Vale per il falegname, il geometra, il panettiere, l’insegnante, il pompiere, il reporter. Il reporter è uno che ha imparato come si deve fare per arrivare nel posto giusto al momento giusto, e cercare di raccontarlo. E’ il suo mestiere. Noi italiani in genere siamo bravi, nei mestieri. Fotografando un’altra guerra, quella dello Yemen, il reporter Lorenzo Tugnoli nel 2019 ha vinto il premio Pulitzer. Il premio più importante per un giornalista.
Gli strateghi e gli opinionisti da tastiera, me compreso, quelli che a milioni, nel mondo, spiegano tutto e il contrario di tutto, dovrebbero osservare non un minuto, ma un giorno di silenzio in onore dei reporter morti in guerra. Bisognerebbe che i social ammutolissero, per un giorno, in memoria di Olexandra Kurshinòva, di Andrea Rocchelli, di Ilaria e di tutti gli altri. Un giorno di silenzio, piegando finalmente la testa di fronte alla maestà della vita materiale, che è la sola artefice, e padrona, del nostro destino.

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